sabato 28 febbraio 2009

Acqua, la terza via: né pubblico né privato


Quando ero piccolo l’acqua era pubblica. E a casa del pubblico l’acqua arrivava con turni africani. Il pubblico si ribellava, andava a protestare in municipio, prendeva a male parole il sindaco e l’assessore all’acqua di turno. Proteste inutili. L’acqua continuava a essere una goccia nel deserto. A casa mia, in un quartiere popolare e periferico di una popolare e periferica provincia siciliana, l’acqua era un miraggio per settimane. I turni si dilatavano fino a un mese. Un mese senz’acqua! Roba da terzo mondo. Ma l’acqua era pubblica e distribuita con un servizio pubblico che gli stessi rappresentanti del pubblico gestivano.
La mia famiglia è sempre stata numerosa: due genitori e cinque figli. Sette persone che si dovevano lavare. Sette persone che avevano l’esigenza di avere la casa e la biancheria pulita in una città civile dotata di servizio pubblico di distribuzione idrica. C’erano i piatti da lavare, c’era il pavimento da pulire. A scuola ci dovevamo andare non dico profumati ma almeno sporchi e puzzolenti no! Non era così. E a scuola non passavamo inosservati.
La gente protestava. La mia famiglia protestava. E l’acqua ci arrivava dopo una, due, tre, quattro settimane. Sembrava che ce lo facessero apposta, che si divertissero. Ma non era così. C’era sempre un problema nuovo da risolvere, un nuovo guasto da riparare, una condotta rotta da rifare, un’interconnessione da realizzare, una nuova fonte da raggiungere, un nuovo serbatoio da costruire. Pensavano a noi! Pensavano alle famiglie che erano senza acqua! Pensavano ai bambini come me che per lavarsi integralmente il corpo dovevano aspettare che si svuotasse la vasca da bagno riempita di acqua proveniente dalla lavatrice. La vasca da bagno veniva utilizzata come sciacquone. L’acqua sporca della lavatrice veniva riciclata versandola nel water dopo i non trattenibili bisogni fisiologici. Era un geniale stratagemma per ottimizzare l’acqua pubblica che ci servivano, anche l’acqua pubblica che talune volte ci portavano con le autobotti.
Le cose sono cambiate quando mio padre ha deciso di investire propri denari nel servizio idrico pubblico. Non ero più tanto piccolo. Ero già cresciuto. In questo lasso di tempo mio padre aveva risparmiato i soldi che gli sono serviti per acquistare una serbatoio più capiente da sistemare sopra il tetto della nostra casa popolare e per comprare una cisterna da diecimila litri da collocare sottoterra con tanto di potente autoclave da fare arrivare l’acqua in cielo dai miei cari parenti defunti. Da quel momento in poi, ho cominciato a farmi il bagno liberamente, secondo i miei capricci. Mi sentivo un libero cittadino con indescrivibili sensazioni di freschezza.
È trascorso ancora del tempo da allora. Oggi mi dicono che il servizio pubblico di un bene pubblico primario è stato privatizzato. Ma come: l’acqua non è più nostra? L’acqua non è più pubblica? Proprio così, mi riferiscono. La gestione dell’acqua è stata affidata per legge a un’impresa privata. Ma come? Un bene pubblico primario consegnato a un privato? Non è possibile! E quanto ci deve guadagnare il privato sulla nostra sete? Quanto ci deve venire a costare? Quanto ci devono far pagare in più l’acqua che ormai utilizziamo solo per lavare cessi e pavimenti perché per bere l’acqua la compriamo imbottigliata e con l’etichetta? E la cisterna da diecimila litri di mio padre che fine farà? Faranno pagare pure quella? Ci saranno almeno dei benefici? Il privato ci fornirà acqua in scatola, minerale etichettata, a pacchetti usa e getta, in lattina come le bevande? E le cannucce, ci fornirà pure le cannucce?
Si protesta. Si continua sempre a protestare: per l’acqua che c’è, per l’acqua che manca, per l’acqua che costa.
L’acqua non deve essere né pubblica né privata. L’acqua deve essere di tutti e per tutti.

Iliubo

(© materiale originale, se adoperato al di fuori da questo blog riportare la dicitura: "autore iliubo - tratto da: www.iliubo.blogspot.com”)

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